Ci sono
giornate da incorniciare.
Bellissime e inutili come oggetti d'arte. Quando,su di un campo di impressioni autunnali,fioriscono note primaverili. L'autunno è quello dell'età più che delle stagioni,che colora sempre più la mente,gli occhi,il cuore. La giovinezza progressivamente si allontana e si dissolve,ed è appannaggio di chi, dell'esistenza, raccoglie or ora il testimone. In giornate come questa la vita irretisce,seduce,pungola come ai bei tempi, ed invita al viaggio nelle pieghe dei dettagli di cose già obliate. Scompare la fatica, si risveglia la curiosità, si trasforma il piombo in oro. Fin dal mattino un “cd” musicale tanto amato (l'ascolto di"Musicante" di Pino Daniele). mi ha rimesso al mondo. E in virtù del potere evocativo della musica si è aperto uno squarcio nella memoria. Come d'incanto si è materializzato il fantasma dell'anno trascorso ad Anzio,dove ho fatto il militare e ascoltavo tutto il giorno le canzoni di Pino Daniele nell'Ufficio della Fureria. Ampi finestroni davano sul lungomare e ammiravo i tramonti più belli del Mediterraneo. Quel periodo mi ha scolpito l'anima. L'assidua frequentazione della capitale (andavo a Roma quasi tutti i fine settimana) mi servì a scrostare ulteriormente la patina di provincialismo che mi portavo addosso e che l'esperienza abortita dell'università non aveva intaccato. In una realtà cosmopolita e vibrante di fermenti vitali respiravo il mondo,le razze;occhieggiavo alle mille possibilità che contiene un'esistenza. In mesi febbrili di emozioni e scoperte ho vagliato innumerevoli esperienze,conosciuto, sofferto, amato. E soprattutto ho scoperto quanto,ad uno sguardo ampio ed aperto,debba corrispondere, come l'altra faccia di una stessa medaglia, uno sguardo segreto,attento al particolare, per rintracciare il microcosmo più adatto ad accogliere e promuovere la propria evoluzione. Ora a Foggia,nella mia città,c'è un luogo dell'anima dove i tanti rivoli di energia dispersa negli anni,nei posti e nelle situazioni più disparate,sembrano aver trovato una sintesi. Il vino è un pretesto. E anche la cultura che ne è naturale corollario. Qui,fra questi tavoli,passa il mondo. Quello vero. Basta saperlo attendere e riconoscere. Occorre solo quello sguardo segreto,più attento e più acuto,che si sviluppa negli anni dopo sbornie di amori,viaggi,relazioni. Ecco cosa narra il testo della canzone "Gli amici" di Francesco Guccini : "..I miei amici veri (purtroppo o per fortuna) non sono vagabondi o abbaialuna; per fortuna o purtroppo ci tengono alla faccia: quasi nessuno batte o fa il magnaccia. Non son razza padrona, non sono gente arcigna, siamo volgari come la gramigna; non so se è pregio o colpa esser fatti così: c'è gente che è di casa in serie B. Contandoli uno a uno non son certo parecchi, son come i denti in bocca a certi vecchi; ma proprio perchè pochi son buoni fino in fondo e sempre pronti a masticare il mondo. ......................... Per quello che ci basta non c'è da andar lontano e abbiamo fisso in testa un nostro piano: se e quando moriremo (ma la cosa è insicura) avremo un paradiso su misura, in tutto somigliante al solito locale, ma il bere non si paga e non fa male. E ci andremo di forza, senza pagare il fio di coniugare troppo spesso in Dio....."
Amo
pensare che il mio "solito locale" sia il wine-bar Cairoli
dove sono diretto, anche stasera, come di ritualità consueta. Rosario Tiso |
domenica 21 febbraio 2016
Wine-bar "Cairoli"
domenica 7 febbraio 2016
La regola del 4
Quelli che hanno deciso di
bere tutto quanto profumi di qualità senza farsi irretire da inutili steccati
ideologici e che si sono conseguentemente auto-definiti “Bevitori Ecumenici”, non
disdegnano sovente di tentare l’Alta Quota come da consuetudine consolidata ma
con un intento discriminatorio nuovo: la regola del 4. Dopo aver navigato in
tutti i vini, il Bevitore sviluppa una propria
poetica. La mia consta di quattro momenti fondanti. Da loro discende la
regola del quattro: GIOIA,DIVERTIMENTO,PIACERE,OBLIO. La gioia è il colore di
ogni mozione finalizzata al bere. E’ l’abbrivio naturale che predispone
all’allegria e al divertimento. Quando si beve si ride! Poi divampa l’emozione e con essa il piacere,il
movente supremo dell’umano prodigarsi. E quando al culmine dello spasmo emotivo
si teme la risacca ecco che ci soccorre l’oblio col suo manto consolatorio. Per
questo è una follia pensare ad un vino senza alcol;chi ci recherà l’oblio,la
panacea di tutti i mali,il tocco sanificatore? La scelta dei vini, ancor prima
che essere tecnica, deve considerare la
regola del 4 , regola “aurea” quanto universale del bevitore che si è evoluto
verso quella sorta di completezza che lo rende più di un valente degustatore:essere consapevolmente
uomini è più bello e vale di più. Per innescare la giusta sinergia i vini
devono essere veri. E un vino è vero se lo è il suo produttore. Non si sfugge a
questa semplice regola. Ci sono piani subliminali in cui tutto si fa
chiaro:dalla passione di un vignaiolo sognatore scaturisce una realizzazione enologica
che racconta una storia. Il “Bevitore Ecumenico”,che si è liberato dalle
zavorre pseudo-intellettuali del sedicente esperto e che assapora il cuore
della vita,è l’unico capace di ascoltarla. E di narrarla a sua volta,come in
una sorta di novella tradizione orale ed emozionale. La soddisfazione si fa
totale e la gioia di vivere continua, tracimante ad ogni gesto, ad ogni parola.
I “Bevitori” ormai “Ecumenici”, hanno di che godere, costantemente in Alta
quota e con la regola del 4 .
Rosario Tiso
martedì 2 febbraio 2016
I Bevitori d’una volta
Col
diventare un “Bevitore Ecumenico” credevo di aver tratto la mia
barca enoica in rada. Lontani i settarismi, i randagismi, gli elitarismi nella
beva e una felice e sincretica ricomposizione di tutte le istanze. Ma la vita è
eterno movimento e non finisce mai di fornire ulteriori spunti di riflessione.
Alcuni settori della critica enologica, attività in gran parte parassitaria e
supponente, da un po’ di tempo propongono come universali propri e
personalissimi criteri di valutazione ,
mischiando le carte antiche e sempre nuove dell’arte della degustazione. Se un
tempo la ricchezza in estratti, il grado alcolico, la possanza e
l’intensità erano percepite in generale
come qualità, adesso qualcuno tende a prediligere la bevibilità, la
digeribilità, una sorta di non meglio definita levità , ma soprattutto dichiara
il primato dell’acidità fra gli elementi portanti e strutturali di un vino, in
sostanza preferisce la verticalità. I
vini acidi sono preferiti a quelli suadenti e mentre i primi, nel nervosismo
della trama, si ritengono espressione di vitalità, nei secondi, nella
placida armonia del tocco, si crede di
intravvedere una sorta di stucchevole piattezza. Dopo aver per anni irretito i
produttori ,spingendoli verso uno stile
produttivo volto all’ottenimento di parossistiche concentrazioni in vigna che
ha portato progressivamente all’ottenimento di uve sempre più ricche e
zuccherine, si vorrebbe dagli stessi una sorta di “dietro-front” stilistico e si declamano i pregi di vini esili,
vibranti, sapidi a scapito di quelli opulenti, caldi, morbidi che sono
però i
soli nettari che possono scaturire dalle suddette uve. Ma chi l’ha detto
che l’alto grado alcolico non è cosa buona? Che la tendenza dolce è
disdicevole? Che l’equilibrio è noioso? Così, come per incanto, si respingono
veri gioielli dell’enologia mondiale osannati fino al giorno prima. Prendiamo
il caso del “Kurni”, uno dei vini più controversi degli ultimi tempi. Chi non
lo apprezza può nascondersi e salvarsi dal pubblico ludibrio solo dietro alla
massima latina del “De gustibus non disputandum est”. Il “Kurni” è un nettare sontuoso, dalla trama
incredibilmente ricca e saporosa. Lo sanno anche quelli che non lo apprezzano.
Però lo criticano. Il doppio passaggio in legno nuovo è il “cavallo di Troia”(
insieme ad una sensazione diffusa e montante di dolcezza) utilizzato per
parlarne male, anche perché sul rigore
produttivo in vigna e in cantina siamo di fronte ad una realtà esemplare e
irripetibile e difficilmente reprensibile. Ma quando lo si beve, ed è qui il
punto, non è come ciucciare la gamba di
una sedia come quando si degusta un campione della Napa Valley e come vorrebbe
suggerire qualche detrattore! Il “Kurni” sciorina un equilibrio fantastico e i
tannini ellagici sono perfettamente integrati; il frutto è esplosivo, le spezie dolci, il grado
alcolico importante. Poi c’è chi dice che è buono, ma non si riesce a finire la
bottiglia. Forse “loro”, i dispensatori di un simile giudizio, non riescono a finire la bottiglia! Non certo
ha questo problema chi ama il vino, è aduso a berne e non ha bisogno della
sferza acida e della freschezza per incentivare
la beva! E soprattutto vede nell’alcol una colonna portante della
costruzione enoica e non un nemico. Sono tanti i bevitori un po’ fragilini, che
svengono dopo qualche bicchiere! Dovrebbero cambiare mestiere, altro che
critica enologica!! Andrebbe loro
suggerito il campo delle limonate e affini !!!
Che nostalgia i nobili e sapienti “Bevitori d’una volta” ,
quelli che bevevano e apprezzavano quasi tutto , che raramente innalzavano
steccati ideologici ed erano rispettosi del lavoro altrui, quelli sempre pronti a meditare davanti ad un
bicchiere e ad involarsi ed obliarsi su ali alcoliche e che non badavano poi
tanto al cibo e non pensavano a chissà agli abbinamenti , sempre disposti
all’ulteriore bicchiere chiarificatore. Quelli hanno fatto la Storia del vino,
e non il puttanaio “
intelletual-radical-chic “ odierno.
Rosario Tiso
lunedì 1 febbraio 2016
Il Bevitore Ecumenico
Chiunque
conosca il mio percorso sulla strada della consapevolezza enoica sa che non ho
mai avuto l’ossessione di trovare un
approdo,un ricovero intellettuale o di costruire una cosmogonìa vinicola che mi
appagasse; bensì la spinta ad esplorare,tentare le strade più ardite,perché il
vino è un universo infinito. Credevo che questa tendenza così
complessa,articolata ed entusiasmante non
sarebbe durata tutta la vita. Così sono passato dalla “Setta dei Bevitori
estinti” ai “Bevitori Randagi”, dal “Simposio dei Gaudenti” ai “Bevitori d’Alta
quota” e agli “Sfracanati”. E quando sembrava tutto compiuto, ecco attendermi un ulteriore passaggio,l’approdo al gradino
più alto della scala evolutiva del degustatore appassionato: il diventare un “Bevitore
Ecumenico”. La critica enologica è quella specie di consorteria sovranazionale collocabile
idealmente fra una lobby e una casta (portatrice di una sorta di “lebbra”
intellettuale )che ci ha fatto ritenere pregi del vino o comunque addendi qualificanti le nuances dette “gout de rancio”(gusto di
rancido),“merde de poule” (escrementi di pollo), “goudron”(catrame) e svariati
sentori animali quali la “pipì di gatto”
,l’afrore che promana da un “cavallo sudato” ,il vezzoso “foxy”,sentore
di volpe in fuga dal corno dei
cacciatori,etc. etc. Chi avesse osato sollevare obiezioni circa l’esistenza e la valenza positiva di
simili amenità era ed è sbeffeggiato e deriso col malcelato intento di
promuovere l’insorgenza di un senso di inadeguatezza nel reietto. Quando
trattasi di campioni particolarmente vetusti poi ,è roba da setta esoterica.
Bottiglie aperte con cautele chirurgiche e attese ore,giorni (a volte
settimane!!), bevute cerebrali,descrizioni mirabolanti e criptiche e chiusa d’ordinanza con la
fatidica frase che non è vino per tutti i palati. Chiaramente…ed
ovviamente…quasi nessuna possibilità di riscontri o smentite. Chi ci libererà
da queste menate autoreferenziali,dalle bottiglie ritrovate nelle stive delle navi naufragate o
dimenticate in remoti recessi di cantine sotterranee e immancabilmente ancora e
miracolosamente buone? Dai “brunelli” centenari e dai “porto” ultracentenari?
Dagli champagne bevuti quando non ci sono più bollicine,dai vini bianchi
costretti a fare i rossi da lungo invecchiamento,da rossi ormai decrepiti e
capaci solo di identificarsi nel paradigma dell’ambiguità formato dai termini elegante,fine
ed etereo che in ultima analisi sono parole che non sai mai quello che vogliono
veramente significare? Ai saccenti,ai supponenti,ai ricchi, ai “rigattieri del
gusto” ,coloro che quando avvertono in
degustazione un che di putrido,marcescente,mefitico si mettono a fare i
curiosi,dico: bevete e godete finchè potete,ma capirci qualcosa è questione
ardua,aperta,irrisolta e irrisolvibile. Insormontabile la montagna del gusto
personale. Opinabile qualsiasi costruzione intellettuale. Fallace la facoltà
dei sensi. Per cui ognuno invecchi come più gli aggrada e cessino i rumori di
battaglia e si smantellino gli schieramenti:non è più tempo di pontificare. La
verità enologica è un Giano “bifronte” con la faccia dell’Autarchia a
contrapporsi all’Ecumenismo enologico. Se da un lato ciascuno deve fare i conti
col proprio estro,la propria individualità,la soggettività del proprio schema
sensoriale(ho conosciuto degustatori che di fronte all’obiezione di eccessiva
acidità in un vino sostenevano la bontà dell’aceto!!),dall’altro è del tutto
infondato qualsiasi teorema di superiorità organolettica . Non ci resta che
amare tutti i vini. Sarebbe ingeneroso
infangare l’operato di tanti uomini appassionati solo perché sostengono uno
scenario gustativo alternativo al nostro o parlare di un Dio minore per tanta
parte dei doni della vite. Il gusto
personale resta;l’universalità del gusto e del piacere sensoriale trascende la
nostra limitata esistenza. Pertanto non mi unisco a nessuna schiera,non
sostengo nessuna tesi esclusiva,non mi interessa nessuna battaglia di parte se
non a fronte di clamorosi delitti perpetrati a danno della collettività e della
Natura che ci ospita. La manipolazione agronomica ed enologica è una scelta
personale ed una prerogativa dell’uomo nell’atto creativo:se condotta con
onestà intellettuale non è perseguibile!! L’afflato artistico appartiene alla Natura?Non
sempre,e spesso è evidente il primato
dell’uomo : Valentini, Gaja, Gravner, Tasca d’Almerita, Marchese Incisa della
Rocchetta ,Romano dal Forno, Marco Casolanetti, Gianfranco Fino, Sergio Manetti
stanno a testimoniarlo e potrei continuare all’infinito. I vini che derivano da diverse visioni del
mondo della viticoltura e della trasformazione dei suoi frutti sono
diversissimi tra loro ma,al netto di ragioni meramente salutiste,c’è del buono in
tanta parte del mondo enologico(e non solo nel nostro recinto preferito!!)ed è
estremamente qualificante dal punto di vista umano ed esperienziale riuscire ad
ottenere il bacio del piacere in misura certamente variabile ma da più parti. Così
a me piacciono soprattutto i vini
cosiddetti naturali(più o meno veri,più o meno biodinamici:ormai bevo quasi
solo quelli!!) ma non ho motivo per rifiutare le costruzioni enologiche che
inseguono un ideale di classicità fondato sulla scienza enologica che da Emìle Peynaud
discende fino ai “guru” dei
nostri tempi, i Rolland, i
Cotarella, i Cipresso, girovaghi e contesissimi. A me non è mai capitato di seguire il pensiero dominante,mai. Ho
sempre aspettato il responso del bicchiere,il confronto diretto con la realtà
che intendevo affrontare organoletticamente. Quale verità è mai quella che al
di là della collina cambia,che non è stata e che presumibilmente non sarà,e che
sul più bello spesso naufraga e ti costringe a fideistici salti nel buio? Non
mi vergogno di quello che mi procura
piacere,di quello che me ne ha procurato e del piacere che verrà: tutto cambia
ma c’è qualcosa di più grande che tutto contiene. Così non butto nulla e cerco
di espandere i sensi per contenere la generalità delle sensazioni ingenerate da
una bevuta,senza steccati ideologici. Un cuore espanso è l’approccio più adatto
per andare incontro a nettari di ogni tipo e di qualsivoglia parte del mondo. E
a chi considerasse l’adesione al “tutto”
una sorta di qualunquismo rispondo con una massima che campeggia all’ingresso
di un monastero zen:” Prima di praticare
per trent'anni lo Zen vedevo le montagne come montagne e le acque come acque.
Quando giunsi a una sapienza più profonda, vidi che le montagne non sono
montagne e le acque non sono acque. Ora che ho raggiunto l'essenza della
sapienza, sono in pace, perché vedo le montagne come montagne e le acque come
acque.” Ch'ing-yuan; ovvero “tutto si comprende,tutto si nega,tutto
si ritrova alla luce di una consapevolezza più profonda”. E alla fine si
accetta,perché un frammento di verità alberga in ogni cosa.
Rosario Tiso
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